Parola ad Alberto Buccianti: l’accessibilità alle cure odontoiatriche. 

Il dottor Buccianti è originario di Terranuova Bracciolini, in provincia di Arezzo. Figlio d’arte, fin da bambino ha vissuto a contatto con il mondo dell’Odontoiatria. Laureatosi all’Università di Genova, ha compiuto diverse missioni di volontariato all’estero e recentemente è stato uno degli odontoiatri italiani selezionati da Colosseum per partecipare alle giornate di formazione della Colosseum Academy di Oslo. Alberto Buccianti è in forza alla clinica Sant’Agostino di Modena.

In questo primo appuntamento parleremo della direzione che sta prendendo l’Odontoiatria soprattutto riguardo al tema dell’accessibilità alle cure odontoiatriche. 

Dottore, com’è cominciato il suo percorso di dentista?
Nasco in una famiglia con il papà dentista; quando ero bambino i suoi pazienti venivano ricevuti in una parte di casa nostra e il salotto praticamente era la sala d’attesa; io che avevo 6-7 anni naturalmente passavo di là e osservavo quello che succedeva. Però in realtà mio padre non mi ha mai fatto pressione perché intraprendessi la sua carriera, dato che si aspettava dei tempi più duri per la professione rispetto a quelli che lui aveva vissuto; comunque sia, quando giunse il momento provai il test d’ammissione all’Università, non ci speravo quasi più quando mi è arrivato un messaggio con scritto “Sei passato”. Da allora mi sono trasferito a Genova, perché era lì l’Università, e da quel momento in poi ho cominciato ad innamorarmi veramente dell’Odontoiatria. 

Cosa le è piaciuto di più dei tempi dell’Università?
All’inizio si affrontano le materie comuni a tutte le discipline mediche, come l’anatomia e la fisiologia; poi, quando siamo arrivati al terzo anno e abbiamo iniziato ad interfacciarci con i pazienti, allora è venuta fuori la mia vocazione di mettersi a disposizione dell’altro. Il fatto è che, bene o male, su quella poltrona diventiamo tutti dei bambini piccoli, mostriamo le nostre insicurezze, le nostre paure, e noi dentisti dobbiamo cercare di essere dei bravi fratelli maggiori. 

Lei ha vissuto l’odontoiatria prima osservando suo padre, poi come studente o oggi da professionista. Come ha visto cambiare negli anni il mondo dei dentisti? 

Ci sono diverse linee evolutive, per semplificare ne individuo tre: per prima cosa c’è una tendenza sempre più accentuata alla specializzazione. È una linea “americana” della professione, che però è ineludibile. Ormai per raggiungere l’eccellenza è impensabile fare i “dentisti tuttologi” nel proprio piccolo studio; e non per mancanza di intelligenza o capacità, ma semplicemente perché ormai ogni 5 anni avvengono tali rivoluzioni tecnologiche e dottrinarie nei vari campi specialistici che un piccolo studio semplicemente non può avere la capacità d’investimento per rimanere aggiornato in tutti i campi toccati dall’Odontoiatria. 

In secondo luogo c’è la parte di cui ho parlato prima, quella empatica. Una volta l’aspetto psicologico era o trascurato o affidato alla predisposizione personale del dentista, ma oggi si è capito che la partecipazione emotiva alla cura da parte del paziente è una parte importantissima, che influisce sulla sua riuscita.

Infine, c’è l’avvento del mondo delle assicurazioni, anche questo su “ispirazione” di quello che avviene in America; molti miei colleghi più anziani lo vivono con fastidio, come se si trattasse di un terzo incomodo tra sé e il paziente. Per me invece è un’opportunità, perché fa accedere alle cure dentistiche molte persone che altrimenti mai sarebbero entrate in uno studio odontoiatrico, o per ragioni economiche o per scarsa attenzione ai problemi orali. 

Però si potrebbe pensare che iper-specializzandosi e abbondonando il modello del dentista generalista il paziente venga ridotto ad un numero, che si perda il contatto umano paziente-dottore. 

Si potrebbe pensare ma in realtà non è così; nella pratica la specializzazione ti permette di valorizzare ancora di più il tuo paziente. 

Ma come si coniuga l’accessibilità alle cure con l’iperspecializzazione di queste?
È un tema che mi tocca fin dai tempi dell’Università; quando ero studente a Genova con alcuni miei colleghi avevamo sviluppato la parte odontoiatrica della Onlus “Camici&Pigiami”; i nostri pazienti erano soprattutto bambini di famiglie di immigrati che normalmente non sarebbero mai andati dal dentista; tramite loro poi avevamo accesso ai genitori, aprendo anche a loro la possibilità di curare la propria salute orale. La grande soddisfazione di quel progetto fu che molte di quelle persone divennero pazienti stabili. Cosa voglio dire con questo esempio? Che l’allargamento della platea dei pazienti deve passare per prima cosa dalla diffusione capillare delle buone pratiche d’igiene orale e di prevenzione. La vittoria si ottiene quando una persona, per quanto sia svantaggiata la sua condizione economica e sociale, non vede per la prima volta un dentista quando si presenta in pronto soccorso perché “ha male ad un dente”, ma è stata intercettata in precedenza e resa partecipe di un percorso preventivo. Per questo è importantissima anche l’opera che sta svolgendo la Società italiana di Parodontologia, con i suoi programmi come il “Progetto stili di vita”. 

In definitiva, per rispondere alla domanda, l’accessibilità alle cure, in un’epoca di iper-specializzazione, passa per forza dalla diffusione della cultura della prevenzione verso tutti. 

Dottore lei ha viaggiato tanto, anche oltreoceano, per incarichi di volontariato.  Che cosa ha portato a casa dal punto di vista professionale da queste esperienze?

Molto di più di quanto io abbia potuto lasciare. Senza dubbio. Ho cominciato a viaggiare a 22 anni, durante l’estate; per fortuna non avevo problemi con gli esami universitari e l’estate era “libera” quindi iniziai ad inserire nella mia pausa estiva 10-15 giorni di volontariato all’estero. Per prima c’è stata Haiti, nel 2009, l’anno prima del terremoto; poi, quando è arrivato il terremoto, le esigenze sono immediatamente diventate enormi e il programma inziale di volontariato è evoluto ed è diventato “Whakiti”, un progetto di raccolta fondi e di solidarietà. 

In seguito, dopo Haiti, sono stato in Costa d’Avorio, in Congo, in Sud-Africa. Come ho detto ho preso molto di più di quanto ho lasciato. Innanzitutto, in termini di esperienza clinica, di possibilità di “muovere le mani”, di mettere in pratica quanto avevo appreso sui libri; in quelle situazioni si trattava soprattutto di estrazioni, proprio per il non accesso alle cure preventive di cui parlavo prima. E poi ho preso moltissimo anche in termini di umanità, di conoscenza dell’essere umano. Tutte cose che oggi mi sono utilissime. Fosse per me inserirei di prassi queste esperienze nei percorsi universitari degli studenti italiani, sono straordinariamente arricchenti. 

13 Novembre, 2023